In queste pagine Agnese narra la storia di un’infanzia senza tenerezza, senza alcuna dolcezza, deprivata di quell’amore e quella protezione che a ogni infanzia dovrebbe essere data e lo fa con un linguaggio estremamente sobrio, diviso in capitoli di breve e bruciante intensità, attenta a non scivolare mai in toni eccessivamente aderenti al dolore o alla rabbia dell’esperienza.
Agnese decide di ripercorrere, con sguardo lucido, una stagione della sua vita, dando a essa una casa di parole e il calore della memoria e pur nell’impossibilità forse di trovare una consolazione alla durezza estrema delle esperienze che l’hanno segnata, ha fiducia che la parola scritta possa dare a essa un’accoglienza che non ha ricevuto. …
Se nella scrittura c’è una qualche funzione riparatrice è grazie alla possibilità di esercitare, attraverso di essa, uno sguardo, se non di tenerezza, di pietas verso la propria storia. …
Attraverso la scrittura Agnese costruisce la possibilità di restituire uno sguardo amoroso, di profondo rispetto, a una bambina che ha conosciuto sguardi di disprezzo, di vergogna, e insieme a lei, restituirlo ad altre vite egualmente offese.
Agnese evoca infatti fin dal principio una giovane nera che abbandona il proprio paese, la propria lingua, i propri affetti, guidata da un sogno di riscatto.
La chiama Joëlle e a lei si rivolge, simbolo di tutte le vite che la società, così detta “civile”, spesso non considera degne di diritti, ascolto, attenzione.