La scultura teatro di CARMELINA PICCOLIS

Carmelina Piccolis: Sapore della nostra eternità. Foto di Alberto Bader ©

CARMELINA PICCOLIS

Una signora di ferro che recita se stessa

Torvald: Prima di tutto sei una moglie e una madre.
Nora: Non lo credo più. Penso che prima di tutto io sono un essere umano come te, o almeno, cercherò di diventarlo, lo so che molti sono d’accordo con te, Torvald, e che anche i libri lo dicono. Ma non mi basta ciò che molti dicono e ciò che c’è nei libri. Voglio pensare da sola e cercare di capire.
Henrik Ibsen 1879, Casa di bambola.

In via Avogadro 16 mi riceve una signora alta e slanciata coi riccioli biondi e gli occhi mobilissimi. Indossa una camicia di pizzo bianca e pantaloni neri molto stretti. Ha la voce forte e squillante della donna sicura. Ci accomodiamo nello studio e quando la vedo seduta in poltrona, le gambe accavallate lunghe e sottili come quelle di un animale selvatico, una gazzella o un trampoliere, gli zigomi segnati, la bocca grande, le mani nervose, ho l’impressione che, col suo consenso, la maschera della sicurezza si vada sgretolando, quasi si trattasse di una scultura in creta che lei oggi abbia deciso di non portare al forno. La voce si frammenta in cento modulazioni, diventa l’ironia, la gioia, il desiderio, la solitudine, la rabbia, l’amore di una brava attrice disposta a recitare se stessa.
Che Carmelina Piccolis abbia il senso dei teatro è fuori discussione. Non ha mai calcato le scene ma ha imparato ad affrontare la vita come un’artista consumata fa con il pubblico in sala.
«Forse perché — dice — niente è più teatrale della scultura. E io e la scultura conviviamo da sempre».

Carmelina Piccolis: Il gesto nella notte. Foto di Alberto Bader ©

Allora conquistiamoci la vita, aggrediamola con la stessa forza con cui si lavora un blocco di marmo, scaviamola, evidenziamone i contrasti, qualche volta accarezziamola per sentirla levigata come un’opera finita. Una sfida difficile e pesante, specie per una donna che abbia scelto un mestiere «da uomo» e in più abbia fatto del binomio cultura-scultura un impegno a cui tener fede anche nei momenti più duri. Una donna coerente è affascinante, ma ahimé anche scomoda, e ben che le vada, la coerenza la paga a caro prezzo.
«Non sono solita accettare compromessi. Credo nel mio lavoro, me lo sono sudato e mi sembra giusto che venga riconosciuto. Invece le mie sculture, dicono, sono bellissime. Ma le ha fatte una donna e non le comprano. Chi capisce la scultura? I grandi attori, Dario Fo ad esempio, che hanno la signoria del loro corpo»,
e qui s’illumina, non è più nella stanza, è in scena. «Tu zitta, perfettamente zitta fai un solo gesto e diventi una scultura mobile. Sei sola al di qua del fiume, in questo grande buco di una sensualità terribile. E sull’altra sponda c’è il buio, un buio pieno, stagnato di gente e il silenzio ha una densità spaventosa… come il purè di patate. Ognuno dovrebbe tirar fuori la belva da palcoscenico che si porta dentro e imitare il mimo che si sente a proprio agio nello spazio e lo spezzetta in fotogrammi rapidissimi, il mimo, la scultura in movimento che ogni scultore sognerebbe di fare. È’ importante “sapersi”, conoscere i propri contorni, immaginarsi da qui alle galassie: è così che si afferra il senso della propria importanza nell’universo. Sei un’entità straordinaria che ritaglia l’infinito. Esisti. Ci sei. Pazzesco. Quando ne hai coscienza, se anche tutto ti va male, tutto… le finanze, il lavoro, l’amore, le scelte, gli sforzi — perché in fondo si ha così poco al confronto di quanto si dà, così… niente —, ti senti vivificato e contento che ci sia il mondo oltre questo buio».

Carmelina Piccolis: Desiderio di questo fianco ambiguo. Foto di Alberto Bader ©

Continua nel monologo:
«lo dico sempre ai miei allievi del liceo Artistico: la più bella scultura che tutti sanno fare è aprire un ombrello. Questa cupola, che ha da un centro dei tiranti, dei raggi, come un cuore, un’anima da cui si dipartono le forze, si riallaccia a quanto affermava Michelangelo: ogni cosa che la pioggia riesce a bagnare completamente è scultura. Sull’oggetto l’acqua si adagia, gii elementi si appartengono, si fasciano, e è sempre un gioco d’amore. Un uovo, la sfera, un ombrello appunto, sono le più belle sculture del mondo. E pochi se ne accorgono. Assurdo».

Carmelina Piccolis: Mio sposo gentile. Foto di Alberto Bader ©

Mi guardo intorno.
«Non vedo molte sculture», le dico.
«Le tengo ammassate in uno sgabuzzino, e comunque ultimamente ne faccio di meno, perché non saprei più dove metterle. Ma disegno tantissimo e sono instancabile. Per molto tempo ho usato la biro, l’ho trascinata sulla carta per chilometri, ogni biro ne fa sedici, e io ne ho consumate tante! Per cosa? Per far dei disegni di donne che, quando li ho esposti, le donne non hanno voluto capire. Perché era come dir loro: specchiatevi e ammettete che in tutte noi c’è qualcosa che non va. Meglio non guardare, meglio non pensar troppo per barcamenarsi».
Ora ci specchiamo insieme. Son stupite e impaurite.
«Ne hanno ben donde», ribatte. «Questa è la cocotte, con le manine grassottelle della donna di piacere ma con gli occhi liquidi di chi è scontenta di vendere amore, questa potrebbe essere una delle negre che incontravo in Brasile o a Parigi dove sono vissuta per molto tempo, con il suo cappellino, la velette e quel senso dell’eleganza, del portamento, che ha soltanto la gente di colore. Qui c’è la ragazza che si droga, vestita di stoffe indiane e di sciarpine, e questa è la violenza nazista dura e tagliente. Ma tutte si aggrappano a se stesse, non c’è possibilità di attaccarsi altrove…
Poi ho avuto un momento tragico in cui mi sono messa un cappuccio in testa, aspettando il boia che mi venisse ad uccidere. Ma lui non è venuto… Pareva che venisse da un momento all’altro, quel boia… E invece non s’è fatto vedere. Forse perché l’ho tanto aspettato, ha tradito anche quell’attesa, il maledetto! E quando sono riuscita a strappare la velina, non c’era che il vuoto di chi non ha più niente da dire e da dare. Vedi, io mi sfogo a scolpire su carta, se prendo una matita in mano scavo nella terza dimensione e capita tutto… Ma guarda la tristezza che c’è qui dentro, l’amarezza dei loro occhi, sempre gli stessi per ogni donna, gonfi di lacrime. Sono sole e costrette a riciclare quel che han creato da sole, non hanno nessuna possibilità di avere qualcosa all’esterno che le aiuti ».
“Non si può dire che tu non sia disillusa…
Carmelina Piccolis ride.

Carmelina Piccolis: Il gesto nella notte. Foto di Alberto Bader ©

«Eppure ho scritto da poco un libro d’amore, come fece Gaspara Stampa per Collantino da Collalto. E adesso me lo pubblico con cinque immagini d’appoggio, il mio messaggio per l’Imperatore! Ma non lo incontrerò mai, nessuna di noi lo troverà più, un uomo che si chiama Collaltino da Collalto!».
E intanto gira i grandi fogli:
«Sono le sculture impossibili, che non farò mai. Ecco I Dormienti, e La Maternità, trentadue chilometri di biro o forse quarantasei. La Paura. Questo l’ho fatto in sette minuti. Mi piace calcolarli in chilometri e minuti, perché in fondo la vita è poi quella roba lì. L’Imbecille… Vedi, questa sono io che dò craniate nel muro e mi ostino a vivere e invece a volte dovrei avere il coraggio di buttare via tutto come quando in Brasile caricai le mie sculture sulla macchina e le gettai nell’oceano in una notte mitica con l’acqua d’argento. Non avevo i soldi per portarle in Europa. Tanto valeva regalarle agli abissi…».
Solo ora mi accorgo che, fissata con una puntina, dal cavalletto di fronte ci sorride Marilyn Monroe.

Maria Giulia Alemanno

in STAMPA SERA – “Da Torino con colore”.  UNA SIGNORA DI FERRO CHE RECITA SE STESSA.
25 giugno 1986

Son trascorsi anni  da quando intervistai Carmelina, Lina Piccolis, nella sua casa di Torino ma il ricordo di questa donna meravigliosa rimane in me, come  scritto con inchiostro indelebile. Bello e commovente ascoltarla e guardarla mentre con gestualità d’attrice raccontava la sua vita. Sempre in battaglia, sempre la prima sulle barricate per difendere l’Arte, la sua Arte. Grande scultrice, coraggiosa e fragile insieme, lo sguardo che mutava improvvisamente da fiero ad impaurito. Che bella figura di donna e che gioia averla incontrata.
Era appena uscito il libro – dichiarazione d’amore – che aveva dedicato ad un uomo fisicamente assente ma ossessivamente  presente nei suoi pensieri. Ne parlava come di una creatura letteraria, e forse lo era, perchè più immateriale dei sogni. Come diceva Paul Éluard, “amando l’amore” affrontava le asperità dell’ esistenza  che non le aveva certo offerto grandi cesti di rose. Aveva accompagnato il rincorrersi delle frasi con  l’immobilità di cinque immagini di sculture cariche di desiderio, passione, tenerezza, rabbia, paura, sgomento. Erano bellissime.
Avrei voluto che a corredo del mio articolo comparissero tutte. Non ne uscì nessuna. Fu colpa mia.  Mi ero talmente fatta prendere dal racconto da non controllarne la lunghezza. La pagina uscì dunque satura di parole e davvero mi spiacque essermi sovrapposta alla forza del suo lavoro, vanificando ancora una volta la sua urgenza di  far conoscere le sue creature.
E’ un debito che ho con lei da tanto tempo e che onoro ora, pubblicando qui a corredo del testo, le sue sculture d’amore. Candide su fondo nero, struggenti come tutta la sua vita.

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